I tempi del giardino sono quelli dell’agricoltura, cioè lenti. Quando piantiamo, seminiamo, potiamo oppure facciamo qualcosa che non sia pratico e manuale, come può esserlo il progettare o più sottilmente il sognare, il risultato lo vedremo dopo molti mesi, di solito un anno. Un pensiero ci attraversa la mente, una meteora di fiori ci fa intravedere nuove e intriganti possibilità ed ecco che la macchina della passione si mette in moto. Ma dal pensiero alla sua realizzazione e quindi al godimento reale del tempo ne passa. Come per l’agricoltore, che guadagna sul suo lavoro solo dopo un ciclo di stagioni. La fretta non è di quest’arte, il giardino pretende l’attesa creativa e le soddisfazioni sono commisurate con il tempo trascorso. Come dire…intanto che aspettiamo facciamo altro, verrà il giorno in cui tutta l’attività che ha pervaso queste quattro aiuole saranno un premio senza pari, per il nostro cervello e le braccia ma soprattutto per l’anima. Purtroppo sono sempre più coloro che pretendono di applicare la premura del vivere quotidiano anche al pezzo di terra che abitano. La fretta che contraddistingue le loro azioni giornaliere vorrebbe essere il motore per la natura che li circonda. Non sopportano la giovane plantula da seme che sale lenta, affrancandosi sempre più nel suolo e voltandosi come meglio crede alla luce. Desiderano e ottengono piante adulte, alte e grosse come fossero lì da sempre. Il fenomeno non è nuovo, ma ora più che mai sta facendo breccia nelle abitudini consumistiche degli italiani che se lo possono permettere: si chiama “pronto effetto” e costa molto. Di meglio non si poteva inventare, definizione migliore non c’è. “L’effetto” è un risultato, il frutto di un lavoro, la resa pratica di azioni compiute da altri. Per esempio è la Sophora japonica, quel bellissimo ombrello verde scuro fatto apposta per tenerci sotto una panca old england; pianta che se acquistata da giovane impiegherà almeno otto o dieci anni per diventare favolosa, ma se arrivata da Pistoia con la zolla da un metro e più, state sicuri che la sera stessa ci potete dare un party, sotto le sue foglie. Ovviamente sarà cresciuta con le attenzioni del caso, quindi potata, concimata e “lavorata” per essere un giorno trapiantata adulta in qualche bel giardino. Insomma, tutto ciò che avreste fatto voi è stato fatto negli anni da qualcun altro. I soldi sono di certo importanti e dovrebbe già bastare per farvi desistere, ma questo pare turbare solo chi non li ha…. Ciò che più mi scompone sono i pensieri che stanno dietro a queste operazioni: l’abitudine di creare il giardino già bello che cresciuto, senza attendere, ingannando il tempo e la natura. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di “lana caprina”, ma potrei riportare decine di episodi significativi: schianti improvvisi per la mancanza di un adeguato apparato radicale, malattie croniche che l’uomo non sa più contrastare e parassiti (afidi, acari, cocciniglie) ringalluzziti dal cambio di residenza. E ancora non sarebbe nulla in confronto allo scempio degli ulivi che si sta perpetrando nel sud dell’Italia. In Puglia, in Calabria, in Campania e perfino più su nella dolce Toscana, vengono “scavati” centinaia di patriarchi, alberi vetusti che hanno visto passare sotto le loro chiome anche Napoleone. Gli ulivi che lasciano il posto alle cultivar moderne sono un dramma, soprattutto perché il paesaggio rimane privo della loro inestimabile presenza. Erano ciò che faceva bella la brulla terra del sud e molti sono convinti che un “pronto effetto” sia il modo migliore per esternare il proprio status. Li vogliono nei giardini moderni per dare quel tocco di sacro, saggio e antico e dimenticano che le profonde e vecchie radici degli ulivi arricchiranno solo chi le ha tolte, qualche altro vivaista, e la propria fretta di vivere.
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