Ricordo mio padre, buonanima, che nelle rare volte (rarissime) in cui mi raccontava della sua giovinezza, amava dire che la sua famiglia era fatta di gente coriacea che lui definiva “dalle spalle larghe”. Nella mia successiva fase adolescenziale quelle spalle larghe acquisirono altri significati e divennero per me il simbolo della rinascita, di quell’araba fenice che risorge ogni volta dalle sue ceneri, di quel seme che sa attendere il momento giusto, delle unghie aggrappate al dirupo che pur di non precipitare possono sanguinare a lungo ma non mollano … mai.
Eccomi qui ora a considerare le mie spalle larghe, a rivedere una vita di cadute e risalite, sempre nella convinzione che il cognome non lo si porta a caso, che quell’origine mi ha impresso un marchio a fuoco da rispettare e onorare, eccomi a confrontarmi nel mio mondo di piante, come a quell’umile erba di fosso che nessun diserbo seccherà mai completamente, a quell’arbusto di roccia che nessuna siccità lascerà per sempre senza frutti.
In questa età di mezzo, tra l’incoscienza e la saggezza, sento la sintonia per le piante resilienti e libere, per le stipe lievi e flessuose, per i timi che scorrono tra i piedi, le achillee dei sassi, i margheritini degli Erigeron, i soporiferi papaveri di california. Non che mi ripugni una maestosa camelia o l’acerello purpureo, anzi so bene che in certi contesti sono irrinunciabili, ma parlo del gusto personale, della vicinanza a quel mondo di piante capaci di riprendersi l’aspetto originale dopo una deformazione data dalla tempesta, da un vorace capriolo o da un gelo che brucia.
Quindi lascio fare, come natura vuole, lascio che sia la forza del singolo a prevalere. Ho seminato l’Eschscholzia californica e le verbene bonariensis sapendo che già dal prossimo anno avranno preso la strada della libertà, avranno saltato i confini delle aiuole e saranno andate dove più le aggrada; anzi sicuramente troveranno l’esposizione e le compagnie che io non saprò mai offrire. Magari spunteranno proprio sul sentiero o decideranno di fare tanti altri metri e le ritroverò sul ciglio del fosso, fuori dal cancello. Sono piante viandanti e nomadi che si spostano con le necessità, erbe che nessun padrone dominerà mai. Lo sono anche le Achillea millefolium di svariate cultivar, proprio quelle pastellose tinte di rosa, ocra chiaro, giallo e crema di varie sfumature, se ne andranno, forse perderanno un po’ delle intenzioni di chi le ha create, forse torneranno bianche ma vivranno anche senza di me. Perfino dall’ombra dei ciliegi fuggiranno le aquilegie, quelle blu scure scure che ho penato a trovare, quelle basse e rifiorenti, le canadesi rosse come lanterne, e soprattutto le crysantha tutte gialle come l’oro: tutte insieme tenteranno oltre la siepe, infileranno qualche seme nella crepa del marciapiede o nel poco spazio libero lasciato dalla potentilla selvatica, spunteranno, come già fanno, perfino tra i piedi dei castagni dove solo l’Anemone sylvestriscrede di poterci stare.
Per non dire della Gaura lindheimeri, sia la bianca che la rosa, più bassa e compatta, tanto lei lo ha sempre fatto e non c’è verso di farle cambiare idea. Teste dura questa gaura. Ma Lascio fare anche all’Echinops ritro, lui si veramente immortale e capace d’infilarsi proprio dove non dovrebbe, magari sul davanti di un’aiuola dove va a coprire altre ricchezze meno sfacciate che però data la mole non si troveranno più… accidenti all’Echinops, lo caverò con la zappa. Come invadenti sono diventati i Teucrium hyrcanicum dalle lunghe spighe rosa scuro. Li adoro non c’è storia, loro si che sono veri partigiani di una patria acquisita di seme in seme, praticamente ovunque, ma che bellezza … quanta forza c’è in queste umili erbacee che non mollano mai, aggrappate all’esistenza, risorgenti anche dopo i maltrattamenti e le discese della vita. Piante dalle “spalle larghe” direbbe mio padre.