Perché sto bene in Giardino.

QUALCHE GIORNO FA HO RIVISTO I PAPAVERI, AI BORDI DI
UN CAMPO, COME SI ADDICE ALLE PIANTE INVADENTI,
PERCHÉ ATTENDONO CON PAZIENZA CHE L’AGRICOLTORE
DIMENTICHI UN DISERBO PER TORNARE TRA IL GRANO.
COSÌ TORNERANNO, ANCHE PER I NUOVI BAMBINI, I MOMENTI
DI VERA LIBERTÀ, APPENA L’ALLEVATORE SI DISTRARRÀ,
NE SONO CERTO.

È quasi buio, sono in giardino da tre ore e
dovrei rientrare, darmi una lavata, mangiare
qualcosa e andare a letto. Per oggi le mie
piante hanno avuto le attenzioni che meritano.
Ma rimango qui, tra le perovskia e i
cespi di lavanda, in compagnia di qualche
sirfide alla ricerca del nettare, seduto sulla
pietra che il sole di luglio ha scaldato per
tutto il pomeriggio; resto qui a pensare dove
avrò acceso la mia fiamma per il giardino,
per le piante e i fiori, per i frutti rossi e l’armonia
delle forme. Una rondine passa rasente
il terreno, prende gli ultimi moscerini
della sera, e intanto la brezza cambia direzione,
come fa da sempre a quest’ora d’esta-

te: scende dalla valle sotto forma di aria più
fresca e va verso la pianura. E ricordo una
scuola di campagna.
La mia prima maestra era di Matera e passava
il tempo a rimproverare e rincorrere. E
d’altro canto noi alunni di campagna, nati
lungo le sponde libere del Po e abituati a rincasare
tardi, eravamo – come si dice oggi –
affetti da iperattività, ma allora era sufficiente
la parola pestiferi. A quei tempi non
c’erano i computer né l’inglese obbligatorio
e alle pareti campeggiava una sgualcita
carta geografica dell’Italia, senza autostrade,
tunnel o ponti sullo stretto. La mia prima
insegnante era una specie di babysitter

o di tata, e a malapena riuscimmo a imparare
l’alfabeto. In compenso avevamo tempo
per osservare: allora i papaveri infestavano
il grano, così come la camomilla e i fiordalisi.
I campi ne erano pieni e, se ti muovevi
lungo il fiume, il gioco si triplicava e quintuplicava
cosicché i fiori diventavano mille.
Pur essendo molto piccolo, avevo imparato
che laddove si posavano gli insetti accadevano
miracoli. I fiori diventavano frutti e
poi semi e dove cadevano i semi – mi aveva
detto mia nonna – nascevano nuove piante.
La prima volta che vidi l’alchechengi credetti
di aver scoperto una gemma preziosa.
Nell’orto di famiglia non ce n’erano e nemmeno
tra le rose di mia nonna; fu quello
scrigno ad aprirmi le porte della curiosità.
Racchiuse tra le brattee arancioni, quelle
lucide sfere rosse erano in grado di punteggiare
il sottobosco. Non avevo mai letto libri
sui frutti selvatici, e lo paragonai a una piccola
lanterna cinese.
A sette anni imparai che sguazzando nell’acqua
del fiume, schiacciando il fango con i
piedi scalzi, accendendo un fuoco sulla
spiaggia di ciottoli e correndo controvento
con una bici scassata ero felice. Io e i miei
quattro amici – quelli che la maestra si affannava
a rincorrere – eravamo felici, ignoranti
ma felici. Ora non si entusiasmano più di
fronte a un alchechengi. Io invece ero libero
di imparare dai fiori, forse più che dalla maestra.
Nei pochi anni della mia giovinezza

avevo assimilato molto bene e reso indispensabili
la sabbia soleggiata del Po, l’acqua
sempre diversa del grande fiume, il vento che
ne muoveva le canne gracidanti di rane e il
fango. Ecco dov’è nato il mio amore per la
natura e i giardini, è nato dove meno me lo
sarei aspettato, tra le golene del Po, le sue
albe e i suoi tramonti. E proprio quell’amore
per la natura un po’ selvatica che mi ha “imprintato”
fin da bambino ho portato nel mio
giardino e in quelli che realizzo.
Incontro giardini e giardinieri quasi tutti i
giorni, per lavoro e perché mi piace. Sono
particolarmente devoto alla mia attività,
che mi ha permesso di mettere in pratica i
miei impulsi creativi e di conoscere tante
belle persone. Il mio mestiere è forse il più
antico, ma non ho ancora una risposta alla
domanda se sia nato prima il giardino o il
giardiniere.
Disegno giardini e questo mi ha reso consapevole
che esiste una umanità sognante
con un profondo amore per la natura e la
bellezza che essa porta con sé attraverso le
sue manifestazioni fiorite, i suoi versi e i
suoi canti, i profumi, i colori del mattino, il
sapore di ciliegia. Mi affascina perché leggo
nei desideri delle persone che incontro una
sorta di atteggiamento irrazionale e immaginoso
nei confronti della realtà. Sono quella
fetta di umanità che a buon titolo si può
ancora definire “romantica o sognante”. In
certi casi si tratta di persone trainate dalla

pura passione, quella che rende spesso capaci
e consapevoli di talenti che prima di
quel momento non pensavano di avere. Con
loro ci scambiamo foto, piante e semi, teniamo
fitte relazioni epistolari – che mi auguro
prima o poi torneranno cartacee –,
prendiamo caffè, ma soprattutto come me
adorano imbrattarsi di terra, sentirne il profumo
ricco di vita e vedere che da essa può
nascere la bellezza di mille colori. Per queste
persone, abbandonarsi al sentimento o
al sentimentalismo per un albero, una rosa,
un rosmarino o per un’ombrosa pergola
d’uva non è mai motivo di vergogna, anzi, si
fanno trasportare dal cuore e sono “felici”.
A loro e al lavoro che quotidianamente svolgono
nel silenzio del giardino voglio dedicare
queste pagine, sperando che altri trovino
l’energia necessaria per rendere i loro
pezzi di terra dei piccoli paradisi, delle oasi
di benessere dove ritrovare sé stessi e poi
che possano gioire insieme ad altri del risultato.
Decido di rientrare. Qualche lucciola ha iniziato
il suo show, una civetta lancia il suo
verso dal solito castagno in mezzo alla radura
e si apre una datura dai fiori bianchi,
enormi. È la notte del giardino. Rimarrei volentieri
qui ma sono davvero stanco, e quando
mi stendo sul letto ripenso all’amore che
mi lega alle piante, agli errori che inevitabilmente
questo porta con sé, agli azzardi,
alle cadute e al mio desiderio di comunicare

quel che so per fare in modo che i giardini
“della passione” non conducano alla disaffezione.
Cosa porta una persona a crearsi un giardino?
Cosa la muove a dedicare spirito e corpo
a un fazzoletto di terra che, il più delle
volte, per inesperienza, regalerà stentati
frutti e qualche fiore, e molto più spesso mal
di schiena, punture di spine e insetti (alcuni
anche sconosciuti), insolazioni e calli?
In realtà non c’è un termine per riassumere
questa spinta improvvisa che i più onesti
chiamano “malattia”. O, meglio, c’è se andiamo
a ripescarlo dalla terminologia religiosa,
mio malgrado: il termine adatto è
proprio “passione”.

(Hai appena letto l’Introduzione del mio libro “Anime da Giardino”, Gribaudo Ed.)

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